Altare Maggiore

Le notizie sullo stato dell’Altare Maggiore della Chiesa Matrice di Serra San Bruno prima del terremoto del 1783 sono scarse. Dalla tradizione e dal manoscritto della parrocchia risulta soltanto che vi era un tabernacolo di marmo, che era stato fatto per devozione da un ricco cittadino negli anni in cui era stato scolpito quello dell’antica Certosa di Santo Stefano, che attualmente si trova nella Chiesa dell’Addolorata, ed attribuito a Cosimo Fanzago. Non vi è alcun indizio che fosse fattura dello stesso autore, né aveva il pregio artistico dell’altro, che era rimasto integro durante il sisma perché era sito nella parte della chiesa non diruta; non era adornato di figurine di santi, ma di colonnine, di cui si conosce l’ordine architettonico. Da allora l’antica custodia andò deteriorandosi e gli elementi si disincastrarono sia per l’umidità sia per le manomissioni subite e per l’appoggio su di essa delle travi per le impalcature in legno degli apparati in occasione delle feste. Si notano anche adesso le scheggiature della parte superiore del cappellone e dell’altare per l’annuale impianto ed addobbo del presepe in occasione delle festività natalizie. Nel 1807, durante le battaglie tra briganti e napoleonici, un soldato francese ne scassinò la porticina d’argento impossessandosi di essa e della pisside. Col decreto dell’amministrazione francese del 13 febbraio 1807 venne chiusa la Certosa e con decreto del 16 successivo i sacri arredi dei soppressi cenobi vennero dati alle chiese vicine; fra alcuni di essi fu consegnato dal priore don Gregorio Sperduti alla parrocchia di San Biagio un tabernacolo di marmo con ornamenti di rame. Nel 1832 furono richiesti gli arredi e gli oggetti d’arte ceduti per essere trasportati ala Certosa di Napoli. Dopo poco tempo, per interessamento dell’arciprete Tedeschi, divenuto ormai vescovo, essi furono riacquistati; è certo che il tabernacolo acquistato non è stato posto sull’Altare Maggiore della Chiesa Matrice, ove era stato ricollocato quello oggetto di contesa tra la parrocchia di Spinetto e  quella di Teravecchia. Nel 1847 la custodia dell’Altare era in cattive condizioni, per cui il Procuratore di quell’anno del SS. Sacramento, cappellano don Giuseppe Salerno, avendo una certa somma in attivo in cassa la impiegò per rimetterla in buono stato, innalzandola di un gradino. Ma durante l’esecuzione del lavoro, il risultato che si stava ottenendo non piacque ed il restauro fu interrotto. Il Procuratore successivo, canonico Anselmo Tedeschi, fece di marmo il pavimento del presbiterio e i gradini dell’altre e della balaustra. Don Giuseppe Salerno si era proposto di erigere l’edicola soprastante l’altare, in corrispondenza e sotto l’arco della navata centrale e diede inizio ad alcuni lavori. Il medesimo intento ebbero i suoi successori, don Giuseppe e don Vincenzo Giancotti; quest’ultimo comprò i componenti di marmo, col permesso del papa, del diruto convento di San Domenico di Soriano Calabro. Divenuto arciprete, don Giuseppe Barillari volle dare una sistemazione completa e definitiva a tutto l’altare e ne diede l’incarico al cognato, Alfonso Scrivo, commettendogli anche l’ideazione e l’esecuzione di un  nuovo frontespizio compreso il tabernacolo. Alfonso, assieme al fratello Giuseppe, si trovarono innanzi la difficoltà di erigere un’opera unitaria, componendo ed utilizzando le parti già esistenti ed i pezzi artistici già acquistati e creare ex novo il tabernacolo e tutta la parte frontale inferiore che l’arricchisce e l’abbellisce e si confacesse agli elementi disponibili, che potevano essere modificati ed adattati col minimo dispendio. La paternità del tabernacolo e del frontespizio che lo fiancheggia e dell’antepodium non può far sorgere questione. Le discordanze possono concernere solo le parti superiori. C’è chi ritiene coautore dell’altare Domenico Drago, c’è invece chi cita il fratello Vincenzo Drago; non risulta da alcun documento, però, quali parti questi artisti avrebbero eseguito. Sulla parte sovrastante la mensa ed il frontespizio decorativo ed illustrativo non vi è alcuna scritta determinativa. L’iscrizione “Fratelli Scrivo 1878” è sul retro, sulla fiancata destra, in mezzo alla verticale. E’ certo che esistettero i marmorai Drago, ma dai documenti parrocchiali e municipali non si possono individuare i loro dati anagrafici e non si può stabilire neppure se fossero fratelli. Il loro nome viene ricordato dai più anziani del paese che attribuiscono loro le cappelle di San Bruno e di San Biagio delle navate laterali della Chiesa Matrice. Il simbolismo nell’Altare serrese della Chiesa Matrice è il contenuto della decorazione e diventa storia sacra, dottrina e teologia. Simbolo ed allegoria trovano fondamento nel Vecchio e Nuovo Testamento. La destra e la sinistra del tabetrnacolo assumono una rilevanza rimarchevole: la destra è la mano dell’attività, è il posto buono; la sinistra è il cattivo, il grado inferiore; il Centro è il punto fermo. Due serpenti, in rilievo su pannelli, accartocciati alle estremità a guisa di papiro o pergamena per significare che le rappresentazioni sono tratte dalla Sacra Scrittura, posti sui gradini, fiancheggiano la custodia. Il tentatore a sinistra, rettile orecchiuto, scaltro, maligno che avvolge con le sue spire l’albero della scienza del bene e del male, che vegeta nell’Eden, che è accennato in basso sullo sfondo. Sul riquadro la lusinga demoniaca: “Scite nim Deus, quod in quocumque die comederetis ex eo, aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii”.  Il serpente sul pannello di destra su un legno a forma di croce, non orecchiuto, mite, è l’immagine di quello di bronzo innalzato da Mosè nella tendopoli di Israele, accennata in tenue rilievo in prospettiva, nel deserto. L’opera, quando è stata sistemata nel 1878, suscitò ammirazione; il compilatore del manoscritto parrocchiale così si esprime: “Squisito e gentile è il lavoro; sono ammirevoli i grappoli d’uva, le spighe di grano e tutto quanto allude al mistero: è un prodigio del genio artistico; è un’incarnazione dell’idea cristiana”. Destò, comunque, discussioni e sforzi d’interpretazione e, naturalmente, fu espresso qualche biasimo. Il medesimo compilatore del manoscritto critica la collocazione dei due serpenti sull’altare e la forma del tabernacolo, dimostrando di essere disinformato. Conclude affermando che “Alfonso Scrivo era un ottimo artista, ma non era un teologo”. Le due tavole della legge poste ai lati estremi dell’altare, sulle quali è stabilito il postulato base del monoteismo giudaico e cristiano, che esclude ogni altra divinità. Il primo comandamento del decalogo, nell’una: “Ego sum Dominus Deus tuus”, nell’altra “Non habeis Deos alienos coram me”. Sul fondo di esse sono accennate in tenue rilievo le nubi e le saette, in riferimento all’ascesa del Signore sul Sinai. I pannelli sono alquanto avvolti a due estremità opposte con un cartoccio barocco per significare il papiro arrotolato, perché quanto in essi è scritto è tratto dall’antico Sacro Libro. L’Agnello è la vittima consueta dei sacrifici nelle religioni antiche; nella notte egiziana del Passaggio del Signore, un agnello bianco senza difetto doveva essere immolato senza spezzarne le ossa e messo sul fuoco ardente a legni incrociati e consumato dai familiari a fianchi cinti con i calzari ai piedi ed il bastone in mano pronti ad intraprendere il viaggio; col suo sangue dovevano essere segnati gli stipiti ed il frontone delle porte dei figli della generazione di Giacobbe. Sul tabernacolo marmoreo serrese è effigiato accovacciato su un libro sigillato, del quale è l’unico padrone e signore; è il libro dei sette sigilli dell’Apocalisse, che esso solo può aprire. Le spighe di grano ed il tralcio della vite sono il pane che rinfranca ed il vino che allieta il cuore dell’uomo. L’Eucarestia, le due sostanze materiali, che il Sacramento tramuta in corpo e sangue di Gesù, sono apprestate sulla mensa ove si nutre del cibo che dura per la vita eterna. Il pane, nutrimento base, significativo di ogni popolo, che si chiede al Padre nella preghiera quotidiana. Il vino è segno di tripudio, ed è presente su tutti i banchetti allestiti dal Signore per i giusti. Sulla porticina argentea della custodia è rappresentato il Buon Pastore che sostiene amorevolmente sulle spalle la sua pecora e guardo verso il cielo dal quale si affacciano due angeli. Il buon pastore dà la propria vita per le sue pecore; si legge nelle Scritture: “io sono il buon pastore e conosco le mei pecore, e loro conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”. Altri simboli si stagliano sulla facciata della custodia ai vertici di un triangolo: la croce e l’ancora ai due lati superiori ed il cuore alla sommità, alludendo alle fondamenta teologiche, e con gli altri fra loro sono legati da una forte catena, che ne caratterizza l’indissolubile unità. La croce assume importanza e diffusione con l’istituzione e la dilatazione della Chiesa; l’incrocio di due linee è una sigla universale e molto semplice. L’uomo fece, però, della croce lo strumento del supplizio più spaventoso della sua crudeltà; il Figlio di Dio per redimere l’uomo ha scelto proprio questo supplizio, il più penoso, il più crudele. Sull’altare serrese lo stollo, intorno a cui sono avvinte le spire del serpente, datore di salute, eretto da Mosè nel deserto, è un tronco d’albero a forma di croce, che è pianta fruttifera di salute e di vita eterna: “Ecce enim propter lignum venit gaudium in universo mundo”. La stella, nell’apice dello stipite della croce latina manda anch’essa il suo messaggio. Il cielo è la sede delle divinità; croce e stella, cielo e terra si identificano. Si tratta di una stella a cinque punte; il simbolismo dei numeri era particolarmente diffuso nei popoli mediorientali. La croce, la fede, Cristo, la stella conquista tutto l’essere umano che crede; irradia i cinque continenti e tutta la terra. L’ancora si staglia sull’altro lato della facciata della custodia. Per i pagani era simbolo di solidità, fermezza e fedeltà; i primi cristiani l’adoperarono nel significato spirituale della speranza, dell’attuazione della promessa del Regno dei Cieli, secondo il progetto di Dio, preparato con la Redenzione ai credenti. Sull’altare serrese col suo manico trasversale somiglia alla croce; in un marmo paleocristiano del Pretestato è innestata nella lettera P e sembra dissimulare una croce. La raffigurazione della speranza è ben resa da questo strumento marinaro. Il cuore coronato di spine, è in alto ed al centro, fra le fiamme, fonte di luce, i cui raggi illuminano tutta la facciata della custodia e gli altri simboli. E’ una simbologia complessa: il cuore, la sua collocazione, il fuoco, la luce, la corona di spine. L’opinione comune ha sempre ritenuto il cuore l’organo degli affetti, dei sentimenti, delle emozioni; in tal senso i riferimenti nella Sacra Scrittura sono innumerabili. Il Signore scruta nei cuori e non bada alle apparenze. L’adorazione del Sacro Cuore è la sommità dell’ascetismo cristiano; Gesù come recita la preghiera liturgica, apre il suo cuore per effondere torrenti di misericordia e di grazia. Il fuoco è il segno della presenza di Dio, che si rilevò a Mosè in un roveto ardente, che si consumava sul monte Sinai. Il fuoco è l’ardore della carità divina; genera luce. La luce è Dio, il suo volto, il suo manto; la sapienza il suo riflesso, il suo insegnamento; la sua parola, il Verbo, ed il Verbo è Dio, Dio da Dio, Luce da Luce, “la vera luce che illumina ogni uomo”. Gesù lo afferma espressamente: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”.